Goloso e Curioso
IL RISO NELLA CUCINA VENETA

IL RISO NELLA CUCINA VENETA

Qualcuno ha detto che il riso è la vera misura del mondo. Con il tempo che impiega a cuocere, circa 20 minuti (qui si parla del vialone nano veronese) si può calcolare lo spazio e il tempo. A noi interessa il tempo. Con tre cotture si fa un’ora di strada. Come dire che viaggiando a 150 chilometri all’ora sull’autostrada da Verona a Milano, se fosse sgombra da traffico, lavori, code e limiti permettendo, si potrebbero degustare in un paio d'ore- bisogna pur tener conto delle pause a tavola- tre risotti tipici: a Brescia un delicato risotto con verdure, a Bergamo un consistente risotto con beccacini e fois gras; a Milano il risotto alla milanese, giallo di zafferano, oro in cucina, all’ombra del Duomo, dove è nato.

Il riso e la cucina tradizionale veneta

Tra zuppe e minestre, risi di brodo e risotti, pasta e fasoi, bacalà e fritaie e salse e pesce e cacciagione e chi più ne ha e più ne metta, la cucina veneta ha offerto e offre una tale varietà di piatti e di sapori che poche altre vantano l’eguale.
Questione di civiltà, di storia, di contatti con gli altri popoli, di cultura, di filosofia della vita: tutte materie nelle quali la Repubblica di Venezia non era seconda a nessuno. Era, anzi, la maestra.
Questione, anche, di geografia e di economia: nel XV secolo il riso coltivato in Piemonte e Lombardia trova terreno fertile in Polesine e nel Basso Veronese, terra ricca di risorgive e perciò d’acqua che può essere canalizzata e portata un po’ ovunque.
E trova terreno altrettanto fertile a Venezia nel palazzo del Doge che fa costruire dugali, seriole e fosse riconoscendo secoli prima dell’Europa la necessità di favorire e proteggere il bianco cereale. Grazie a quest’acqua, splendida levatrice (la mamma è la terra che nel nostro territorio è di origine alluvionale, in prevalenza sabbiosa argillosa di grande fertilità) nasce il vialone nano veronese. Nella seconda metà del ‘500 la coltivazione del riso è ben diffusa nel veronese e rende bene, in termini economici e gastronomici. Alla borsa e al palato.
Due secoli dopo, nel ‘700, il marchese veronese Giovanni Battista Spolverini ne tesse l’elogio nel libro “La coltivazione del riso”: “Te, dono almo del ciel, candido riso/ solo fra tanti in mille e mille carmi/ lodati semi non ancor descritto/ cantare intendo…”. Spolverini riconosce nel suo libro il primato del frumento, ma pretende il secondariato per il riso. Se il grano è oro, il riso è argento. Se quello è il sole, questo è la luna. Siamo nel 1763.
In realtà se il frumento è il re nei campi, sulle aristocratiche tavole venete s’impone sempre di più il riso preparato in mille modi, con gli ingredienti più ricchi ed esotici e ricco di signifati simbolici. Le mense popolane e contadine, che badavano più alla pancia che alla gastrosofia, rispondono preparando risi e risotti con verdure dell’orto con erbe dei campi e carni accessibili, come quella del mas-cio, del maiale.
E’ anche vero che la povera gente non aveva molto da scialare (significativo il proverbio che recita: quando un contadino mangiava un pollo o era malato il contadino o era malato il pollo), ma quando ci voleva ci voleva. Come nei giorni di festa, ad esempio.
Da questo continuo evolversi di gusti e di sapori, aristocratici e plebei, ma tutti ghiotti, favorito dal fatto che sta bene pressochè con tutti gli ingredienti, il riso diventa il re delle mense venete ben oltre la Repubblica Veneta (1798), oltre il periodo austriaco e le guerre risorgimentali (1866), oltre le due guerre mondiali fino, direi, a tutti gli anni Cinquanta: dal ducale risi e bisi, al risotto coi fegadini, dal riso al sedano, al riso e luganeghe, dal goldoniano riso con la quageta, al riso e verze, con i bruscansoli, con i funghi, gli asparagi la zucca, i roertisi, che i veneziani chiamano rustegoti (cime di pungitopo), con i sc-iopeti, la patata e perfino le tenere, primaverili foglioline d’ortica.
Per non parlare dei ghiotti risotti di pesce, magnifica specialità veneziana. Da quelli popolani fatti con l’umile go, una sorta di ghiozzo della laguna, a quelli con canoce, branzino, scampi, peoci e capesante, canestrei, risotto col nero di seppia, fino a incontrare in terraferma i risotti di pesce d’acqua dolce, fiumi e laghi: di bisatta (anguilla), tinca, carpa, pessin e di aole e lavarello sul lago di Garda. Un mare di delizie. Fiumi e ruscelli di acquolina in bocca.
Non posso portare le prove, ma è mia convinzione che il decadimento della Serenissima sia dovuto, oltre allo spostamento del baricentro dei commerci dal Mediterraneo all’Atlantico conseguenza della scoperta dell’America, all’immobilismo di un altro baricentro, quello del fondoschiena, per il troppo indugiare a tavola. Tanto è vero che fin dalla metà del XV secolo e per tutto il XVI furono emanate le cosiddette leggi suntuarie, per limitare i lussi nell’armadio, nel forziere, in casa e in tavola: abiti, gioielli, mobili e piatti.
Meno male che quando succede il patatrac e arrivano Napoleone, le armate francesi e Antonin Careme, direttore  dei pranzi del Bonaparte con i primitivi tentativi di nouvelle cousine, la cucina veneta è talmente forte e consolidata che resiste sulla trincea delle mense assai più dell’esercito veneziano che si liquefa come gorgonzola sul riso bollente.

I giorni della festa e le stagioni
Nei giorni di festa il risotto trova sempre più spazio accanto a bigoli, paparele, macaroni, gnocchi e così via. Abbiamo detto che il riso diventa il re delle tavole venete ma occorre dire che la paparela ne era la regina. “Paparele bo’ e vin tondo l’è el mejo magnar del mondo”. Anche qui bisognerebbe sottolineare che ad alzare la media dei consumi delle paparele sono i ricchi, ma questo lo diamo per sottinteso e non ci torniamo più su.
Per i poveri paparele e grassi risotti rimanevano un miraggio che diventava realtà due volte all’anno: a Natale e a Pasqua. Tanto che era diventato normale scambiarsi come augurio, oltre al Buon Natale e Buona Pasqua, anche “Bone paparele”. O il trionfante grido: “Alleluja alleluja, le paparele le se desgarbuja”.
Per dimostrare, poi, che  mangiava davvero paparele o risotto, il povero cristo metteva sulla punta della scarpa, come fossero caduti lì per caso dalla tavola, un pezzetto di pararela o un chiccolino di riso. Quel serpentino giallo o quel dentino da latte sulla scarpa dovevano dimostrare urbi et orbi che anche lui e la sua famiglia avevano mangiato, il giorno della festa, come i siori.
Per chi viveva in campagna un periodo dell’anno di particolare abbondanza era l’uccisione del mas-cio, il maiale, che veniva fatta intorno a Santa Lucia. Per controllare che la pasta del porco con la quale si facevano i salami fosse conciata con sale, pepe, aglio e spezie secondo i gusti di famiglia (stabiliti dalla matriarca, la res-dora come dicono in Romagna), si preparava il tastasal con il quale si condiva il risotto che concludeva la festa del baldachìn. Il baldachìn, lo sapete, era la gabbia attaccata al soffitto alla quale si appendevano salami, cotechini, cotechine (cotechini con la lingua, da consumare il giorno dell’Assensa, dell’Ascensione), pancette e così via.

Cottura e ricette
I risotti sono tra i piatti che più fanno onore alla cucina veronese. Ce ne sono di tantissimi tipi e lo dimostra, tra gli altri, il premio “Risotto d’oro” che si tiene tutti gli anni a Isola per la festa del riso e che vede in gara trattorie, osterie e ristoranti dei 24 Comuni del territorio del vialone nano igp.
Noi ci limitiamo a citare i classici, da quello al tastasàl nominato prima, al riso con le ciche, eletto piatto tradizionale di Buttapietra, dal risotto con i fegadini e regueste, al risotto con la zucca, con gli asparagi, con la salsiccia, con l’oca e con i funghi.
Un discorso a parte, visto che siamo a Isola della Scala, terra di risaie e di riserie, meritano due risotti particolari. Il primo è il risotto a la pilota inventato dai piloti. Che non erano gli aviatori del Terzo stormo di Villafranca né, come qualcuno ha scritto, Tazio Nuvolari nato qui vicino, ma gli addetti alla pilatura del riso.
Il risoto a la pilota, più che una vera e propria ricetta, è un modo di cuocere il riso. Si riempie per tre quarti d’acqua una pentola e si mette sul fuoco. Quando l’acqua abbondantemente salata bolle, la si leva dal fuoco e vi si versa il riso che formerà una piramide con il cucuzzolo leggermente sporgente dall’acqua. Una specie di iceberg bianco e perlaceo pronto a far affondare anche la dieta più titanica. Si copre la pentola con un coperchio in modo che trattenga il calore. Poi si lascia lì per 45 minuti: i chicchi rimangono fermi sulla loro piramide e alla fine risulteranno cotti a puntino e pronti a ricevere il sugo che più si preferisce.
Tempi assai più corti richiede il riso in bianco col burro detto anche alla scapadora perché era il riso preparato dalle donne che lavoravano nei campi o nella filanda e non avevano tempo di stare tanto ai fornelli. Buttavano giù il riso in acqua salata e appena cotto lo tiravano su e lo condivano con un po’ di burro.
E veniamo a quello che Giorgio Gioco, il patriarca dei cuochi veronesi, definisce il re dei risotti: quello all’isolana che prende il nome da Isola della Scala. Più di ogni altro il risotto all’isolana interpreta l’anima del vialone nano veronese. Sulla ricetta esistono tante versioni. Quella più accreditata è del cavalier Pietro Secchiati. Non mi avventuro in alcuna per non rischiare bacchettate sulle mani o il taglio della lingua. La ricetta è stata codificata dal Comune. Basta chiederla in municipio a Isola e saranno lieti di fornirvela.
Dico solo che il risotto all’isolana è una interpretazione del riso alla pilota. Le ricerche storiche hanno individuato la data di nascita, intorno alla metà del XVII secolo, ma non il luogo. C’è chi lo fa nascere nel convento dei benedettini a San Benedetto Po, chi a Trevenzuolo, chi a Isola della Scala e chi nel vicino mantovano. Dove sia nato non ha importanza, è venuto ad abitare a Isola della Scala dove è felicemente residente.

Riso, cibo dei grandi
Abbiamo accennato prima che il risotto era uno dei piatti preferiti da Carlo Goldoni che lo inserisce nel menù di qualche commedia e ridicolizza il suo Todaro Brontolon quando gli fa dire che con mezza lira di risi si potevano sfamare otto o nove persone purchè il riso fosse cotto alla maniera fiorentina: “…i se mete suso bonora acciò che i cressa, acciò che i fassa fazion. Li si fa boger, bollire, tre ore…”. Goldoni amava più di tutti il risotto con le quaglie. Lo stesso Prospero Merimèe, che consigliava agli amici francesi un viaggio a Milano anche solo per mangiare il risotto con le quaglie.
Giovanni Comisso, scrittore vicentino, ricorda una trattoria vicina al mercato, probabilmente i 12 Apostoli, dove “… mi venne portato un risotto con i fiori di zucchini che non avevo mai mangiato prima…”. E sempre a Verona ricorda l’eccellente risotto col pesce del Bragozzo e il risotto con la polpa delle rane, una leccornia- la definisce- per iniziati. Una leccornia ancora servita da molti ristoranti della zona della Bassa Veronese. Comisso si sposta poi “… nella parte meridionale della provincia dove le terre confinano con il mantovano e “compare”, racconta, “con una certa frequenza un piatto di riso, una specie di pilaf o di paella nostrana, ricco di molte carni e di condimenti svariati. Il più celebrato- dice- si può assaggiare ad Isola della Scala”. Era il risotto all’isolana.
Giovanni Pascoli dedicò una poesia al risotto romagnolesco della sua Mariù. E Cesare Marchi scrisse: “Tutte le sere mangio un etto di riso bollito con sopra una gialla mattonella di burro: sembra la bandiera del Vaticano ed è un mangiare da Papa”. E Giovanni Agnelli? Nel periodo di splendore della Fiat ordinava da Torino al cuoco a bordo dello yacht veleggiante nelle acque dello stretto di Messina di preparargli risotto con gli scampi. Poi arrivava in elicottero, si tuffava tra Scilla e Cariddi vicino alla barca, un’asciugata e via a tavola.
Ma credo che meriterebbe un premio alla memoria da parte dell’Ente nazionale risi, Filippo Tommaso Marinetti, il vate del futurismo. Nel suo furore modernista dichiarò guerra a maccheroni, spaghetti e fettuccine che con i “loro grovigli legano gli italiani a sonnolenti velieri”. “Ricordatevi”, scriveva, “che l’abolizione della pastasciutta libererà l’Italia dal costoso grano straniero e favorirà l’industria italiana del riso”.
Per Marinetti la fine della pasta significa la liberazione del corpo dalla pesantezza e la carne dagli impacci della gravità. Il riso è leggerezza. E’ aereo. Il furore gastronomico futurista  annuncia la rivoluzione copernicana  alimentare: “Prima/ la pasta, dopo/ il riso, prima la ripetizione/ dopo, la fantasia”. E’ patriottico sostituire il riso alla pasta.
Sinceramente non ce la sentiamo di seguire Marinetti in questa quarta guerra risorgimentale. Anche perché le ricette che consiglia sono poco appetibili: brodo di rose zig zug zag; porcoeccitato: un piatto innaffiato da acqua di colonia e caffè; carne cruda squarciata dal suono di una tromba: si alternava, cioè, una forchettata di carne cruda e una trombonata negli orecchi. E poi  predicava piatti di colore azzurro. Sinceramente un risotto ai Puffi mi farebbe senso.

Abbinamento risotti e vini
Se chiedevamo qualche anno fa qual è la bevanda migliore da abbinare a un bel piatto di risotto, c’era ancora chi recitava. “Il riso nasce dall’acqua e nell’acqua deve morire”. Era il partito degli astemi. Che fortunatamente ha ottenuto pochi consensi ed è sparito. O almeno beve acqua e tace. Se oggi si fa la stessa domanda: quale bevanda si sposa meglio col riso? Tutti rispondono: il riso nasce nell’acqua ma muore nel vino. Filosofia, o meglio gastrosofia, giusta. Ma secondo noi incompleta. Manca la parte fra la culla e la tomba. E cioè il crescere. La risposta completa dovrebbe essere: il riso nasce nell’acqua, cresce di gusto nel condimento e muore nel vino. E’ difatti il condimento che stabilisce il giusto abbinamento tra risotto e vino.
Il riso, infatti, come la pasta del resto, è un cibo neutro. E’ il condimento che lo qualifica. Il ragù che gli dà il carattere. Se il risotto è con le rane o di canestrei o con pesce delicato, come il lavarello del Garda, o con gli scampi ad esempio, la morte sua è con i bianchi freschi, sapidi ma di corpo leggero. Come, per restare nel Veneto, il Bianco di Custoza, il Lugana e il Soave. Ideali anche per certi risotti di mare con branzino, o san pietro od orata.
Ma per un risotto con pesce più grasso o ben condito- anguilla, carpa, pesce gatto- o di personalità decisa come la gallinella di mare, ci vuole un bianco capace di sgrassare meglio la bocca: un superiore, sia esso Soave o Custoza. O un Durello di Monteforte. O un Pinot Grigio della Valdadige: questo e quello si accompagnano magnificamente anche  un risotto con il baccalà. Bene anche certi vini di sabbia della zona di Arcole. Vanno bene anche un Bardolino o un Valpolicella giovane. Che si accompagnano magnificamente anche a un risotto di carne. Il risotto all’isolana si abbina stupendamente con Bardolino Classico docg, Enantio della Terra dei Forti, Corvina Garda doc. Anche col Valpolicella superiore. E così il risotto con le ciche. Per un risotto fatto con la Pastissada de caval che resta nella pentola, sempre che ne resti, sta bene un Valpolicella superiore e perfino un amarone. Il quale amarone è l’unico vino da bere se si fa il risotto con l’amarone. Protagonista in pentola? Protagonista anche nel bicchiere.
Un risotto con ingredienti profumati- per esempio al pesto, con i porri, con le asparagine selvatiche- pretende un vino altrettanto profumato e aromatico: Custoza, Soave, Chardonnay. Il risotto col tartufo merita un regale Cabernet-Sauvignon dei colli morenici o degli ultimi contrafforti orientali dei Lessini.  
Si potrebbe andare avanti quasi all’infinito. Risotto allo champagne? Bisognerebbe abbinarlo al vino usato per preparare il piatto. Allora fatelo con un Metodo Classico  veronese e quello bevete. Risotto allo zafferano? Un bel bianco di struttura e discreta carica alcolica: Chardonnay della Valdadige.
Risotto con gli asparagi? Un bianco profumato fresco come il Soave. Risotto con la salsiccia? Un rosso di medio corpo, con una leggera vena acidula come certi Valpolicella della zona di Fumane. Risotto con i funghi? Un rosso di non troppo corpo e contenuto nell’alcol. Risotto con radicchio rosso di Treviso vuole un bianco deciso come il Durello.Resterebbero fuori il Recioto della Valpolicella, quello di Soave e il passito di Custoza se non ci fossero la crema cotta di riso e la sbrisolona fatta con la farina del cereale. Per fortuna ci sono.Ho parlato solo di vini veronesi, ma non voglio dire che il riso vialone nano veronese non sposi altrettanto bene la cantina toscana o che i vini piemontesi non farebbero bella figura con certi risotti robusti come quello all’isolana. La farebbero eccome.Ma è questione di cultura, di terra, di tradizioni: è chiaro che una pietanza e un vino nati nel medesimo contesto culturale, dalla stessa gente, cresciuti per secoli fianco a fianco, che hanno vissuto le medesime vicende storiche e hanno partecipato alla stessa evoluzione del gusto, non possono che star bene insieme perché si conoscono profondamente.
Ma attenzione. Non è detto che un buon risotto si sposi automaticamente con un buon vino. Soprattutto quando il primo è delicato, come il risotto con le rane ad esempio, e il vino, invece, è tutto muscoli, come un amarone. Sarebbe come mettere insieme una suorina di clausura che profuma d'incenso con Arnold Schwarznegger che odora di canfora.  
E allora? Ci vuole armonia. Anche se sono figli della stessa terra un piatto e un vino devono suonare lo stesso spartito. In un coro dove tutti cantano lo stesso brano ci sono voci diverse, soprani, tenori, baritoni, ma se c'è armonia il risultato è esaltante sia che cantino il Va pensiero o La Montanara.
E così un'orchestra dove c'è il flauto che gorgheggia e il timpano che suona o il contrabbasso che brontola, ma se tutti i professori seguono il maestro, sia che diriga la Quinta di Beethoven che l'Uccello di fuoco di Stravinsky o il Flic e Floc dei bersaglieri il risultato è grande. Quando c'è l'armonia cambia il prodotto, ma non il risultato.

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Morello Pecchioli
Il riso nella cucina veneta

Morello Pecchioli

Morello Pecchioli

Direttore di Golosoecurioso. Giornalista professionista. Archeogastronomo. È stato caposervizio del giornale L’Arena di Verona. Ha scritto i libri “Il Bianco di Custoza”; “Il rosto e l’alesso, la cucina veronese tra l’occupazione francese e quella austriaca”; “Berto Barbarani il poeta di Verona”. Scrive per la rivista nazionale dell'Associazione italiana sommelier "Vitae", per "Il sommelier veneto" e per il quotidiano nazionale La Verità diretto da Maurizio Belpietro. Ha collaborato, con Edoardo Raspelli, alla Guida l’Espresso. È ispettore della guida "Best gourmet dell'Alpe Adria". Ha vinto i premi Cilento 2006; Giornalista del Durello 2007; Garda Hills 2008. Nel 2016 ha avuto il prestigioso riconoscimento internazionale Premio Ischia per la narrazione enogastronomica. Nel 2016 ha scritto il libro "Le verdure dimenticate" e nel 2017 "I frutti dimenticati", pubblicati entrambi da Gribaudo. Sempre per Gribaudo ha scritto "Il grande libro delle frittate". In collaborazione con Slow Food ha pubblicato nel 2018 il volumetto sul presidio "Il broccoletto di Custoza".
Indirizzo mail: morello.pecchioli@golosoecurioso.it

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